venerdì 22 luglio 2016

Gian Carlo Caselli


“I fatti di Mezzojuso e l'incontro con Provenzano? Non seppi nulla né prima, né dopo”. “Luigi Ilardo? Il nome del confidente era innominato, lo appresi in un secondo momento”. “Il covo di Riina? Fu De Caprio a dire no alla perquisizione”. “Il rapporto con il Ros? Un conto erano le impressioni sui singoli, un conto la struttura”. Sono queste alcune delle risposte di Gian Carlo Caselli, Procuratore capo di Palermo dal 1993 al 1999, ad alcune delle domande poste dai pm Vittorio Teresi e Nino Di Matteo (presenti in aula anche Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, ndr), al processo trattativa Stato-mafia in corso all'aula bunker dell'Ucciardone. Una deposizione fiume, che lascia un retrogusto amaro se si considerano i numerosi dettagli persi per strada e che restano senza una risposta chiara. Così come era accaduto nell'audizione al processo Mori-Obinu, Caselli da subito pone il problema dei “gravi limiti” della propria deposizione: “20 anni dopo è complicatissimo ricordare, ci sono conoscenze dell'epoca e quelle acquisite successivamente. Poi il dirigente di qualsiasi ufficio giudiziario è sommerso di lavoro e ci sono limiti obiettivi della mia testimonianza”.

Ancora una volta i “non ricordo”, i “non so” ed i “non credo, salvo difetto di memoria” scandiscono la testimonianza del magistrato che conferma di non aver mai saputo il nome del confidente Luigi Ilardo, almeno fino all'incontro avuto a Roma, il 2 maggio 1996, presso gli uffici del Ros. “Era ovvio imporre la riservatezza – ricorda Caselli - Si poteva mettere a rischio il confidente i funzionari della Dia, Riccio in particolare. Né Pignatone né io abbiamo voluto sapere il nome del confidente. Non ci compete. I confidenti sono materia esclusiva della polizia giudiziaria. Le informazioni che portava Ilardo tramite Riccio? Non c'era patrimonio di conoscenza, le informazioni erano assolutamente generiche. Ho dato ampia delega a Pignatone che mi riferiva quando capitava e sempre Pignatone mi ha detto: ‘di concreto non abbiamo nulla se non la speranza, la prospettiva di catturare a breve Provenzano che poi non veniva mai catturato’”. Seppur a fatica, sollecitato dalle domande dei pm, Caselli ricorda comunque l'effettivo livello di attendibilità della fonte che aveva fatto arrestare sei importanti latitanti: “Se ne è parlato. Ne ha parlato Riccio in quei pochi momenti di colloquio. Non ricordo che cosa mi diceva di volta in volta Pignatone. Poi in un contesto generico c'è questo pizzino di Provenzano che era nelle mani di Pignatone e se non ricordo male non viene acquisito dalla Procura”. Uno dei tanti elementi di prova sull'importanza di Ilardo che certificavano il valore di una sua possibile collaborazione con la giustizia al di là dell'arresto del superlatitante corleonese. Inoltre, ad ulteriore richiesta di chiarimento se fosse stato informato che tra i latitanti catturati vi erano soggetti di primo piano come Aiello, Vaccaro e Fracapane, insiste: “Informato: no. Perchè le informative venivano date a Pignatone. A volte Pignatone mi parlava di queste cose. Mi ricordo invece che mi aveva colpito che la maggior parte di loro non era di Palermo”.

L'incontro del 2 maggio 1996

Caselli, ribadendo ancora una volta che la tragedia della morte di Ilardo nel maggio 1996 ne ha “inceppato i ricordi” in quanto “porta alla rimozione di certi episodi”, tanto da non ricordare un episodio eclatante come il gesto che Ilardo compie, quando negli uffici del Ros a Roma si tenne l'incontro tra il confidente ed i pm di Palermo e Caltanissetta, spostando la sedia posizionata davanti al procuratore Tinebra e sistemandola davanti a Caselli ("Non l'ho percepito quel gesto. Se qualcuno ne parla sono portato a pensare che qualcosa sia successo, io non me ne sono accorto”). 
Caselli spiega che l'incontro del 2 maggio, era volto a “coordinare le circostanze della collaborazione del confidente” senza verbalizzare le dichiarazioni: “C'erano Ilardo, la Principato, io, Tinebra e Riccio. Altri se ci furono non ricordo. Mori sicuramente l'ho notato, poteva esserci anche Obinu”. E sull'incontro con il confidente aggiunge: “Disse che voleva formalizzare il suo rapporto con l'autorità giudiziaria. Se parlammo di Mezzojuso? No. Assolutamente, scoprimmo dopo quel che accadde a Mezzojuso. Disse che aveva bisogno di tempo per sistemare delle cose con la sua famiglia. Allora io raccomando a Riccio di vigilare su Ilardo per evitare cose spiacevoli e gli dico di raccogliere le dichiarazioni di Ilardo, registrandole... per accelerare i tempi, per rendere più fluide le cose. Perché non verbalizzammo a Roma? Non c'era un avvocato difensore e le regole andavano rispettate”. 
Purtroppo però Ilardo, la sera del 10 maggio 1996, a Catania, in via Quintino Sella venne ucciso a colpi di pistola. Proiettili che gli tapparono per sempre la bocca impedendogli di diventare ufficialmente un pentito.



Da don Vito Ciancimino al covo di Riina
Altro tema delicato, affrontato in aula, riguarda poi l'interrogatorio avuto con l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Caselli dice di non avere ricordi precisi senza ricordare se i carabinieri gli riferirono mai del rapporto avviato con don Vito. “Certo è – riferisce l'ex Procuratore capo di Torino - che arrivò una nota dal Ros in cui si diceva che Ciancimino voleva parlare. Violante e la richiesta di sentire Ciancimino all'antimafia? Violante non mi ha mai parlato di Ciancimino. Mi sento di poterlo escludere”. Il primo interrogatorio con Don Vito avvenne in un momento piuttosto delicato con la vicenda della mancata perquisizione del covo di Riina che era ancora calda, una vicenda che Caselli ricorda con amarezza: “Fu De Caprio, il cosiddetto capitano Ultimo, all'epoca quasi un eroe nazionale, a chiedermi di non perquisire il covo di Riina – riferisce rivolgendosi alla Corte – De Caprio aveva arrestato Riina, e io mi fido. Sicuramente agiva in sintonia con i suoi superiori. Sosteneva che altrimenti avremmo compromesso sviluppi investigativi importanti. Io mi fidai e per me era scontato però che il Ros avrebbe proseguito la sorveglianza del nascondiglio del boss appena catturato. Così non è stato. Scrivemmo una dura lettera alla Territoriale e al vertice del Ros per chiedere spiegazioni. Il mio rapporto con il Ros? Certe situazioni fecero venire punti di domanda ma una cosa è l'istituzione ed una cosa il singolo soggetto. Il rapporto con il Ros restò ottimo”. E questo nonostante vi fosse più di un dubbio sollevato da altri magistrati, proprio sul modus operandi del Ros nella gestione di determinate operazioni. A cominciare da quando riferito dall'ex sostituto procuratore Alfonso Sabella, all'udienza dell'8 gennaio 2016 in merito alla necessità di allargare anche ad altre forze di polizia la ricerca di latitanti. Secondo Caselli era “logico avere perplessità e che ci potessero essere delle divergenze, ma sempre nel perimetro della razionalizzazione. In Dda la mia responsabilità era che il confronto fosse inserita in questo perimetro”. 
Tuttavia, proprio in materia di direttive per la ricerca di latitanti, il 28 ottobre 1995 (tre giorni prima dell'incontro tra Ilardo e Provenzano a Mezzojuso, ndr) in Procura viene effettuato un incontro a cui partecipano non i sostituti procuratori ma i capi delle forse di Polizia impegnate in questo campo. Chiede Di Matteo: “Perché le forze di Polizia devono essere messe a parte anche dell’organizzazione interna sulla suddivisione tra sostituti di gruppi di latitanti?” Per Caselli queste riunioni sono di organizzazione dell'Ufficio: “Era tutto finalizzato a dire: ‘guardate, dobbiamo fare squadra, dobbiamo lavorare tutti assieme, voi Forze di Polizia e noi’... Fermo restando poi che io come Capo dell’Ufficio avevo il potere-dovere, la responsabilità di funzionare da cerniera e da raccordo quando eventualmente venisse fuori qualcosa che fuoriusciva da quell’ambito ma doveva essere comunicata. C'erano tre piani: l’organizzazione, l’indagine e il raccordo-cerniera del Procuratore della Repubblica o eventualmente degli Aggiunti”. Fatto sta che, nonostante la direttiva per una collaborazione ampia, secondo quanto riferito sia a Caselli che da Pignatone, nessuno del Ros parlò di Mezzojuso. Ciò non sarebbe avvenuto il 28 ottobre, né successivamente, fino alla consegna del rapporto Grande Oriente nel luglio 1996, dove furono inseriti anche gli ulteriori elementi forniti da Ilardo anche sui favoreggiatori di Provenzano e l'esito di alcuni accertamenti compiuti”.

“Grande Oriente” e dintorni
In merito al rapporto “Grande Oriente”, a domanda del pm Di Matteo se la dottoressa Principato, incaricata di seguire la nuova fase di indagine, lo informò in maniera analitica sui fatti di Mezzojuso contenuti nello stesso documento, l'ex Procuratore risponde con incertezza: “Dell'incontro l'ho saputo soltanto dopo... dopo molti mesi, dopo molti anni, dopo pochi mesi… non lo so…Ci sono sovrapposizioni per le polemiche… per le cose che vengono fuori dopo l’omicidio Ilardo… dopo che viene fuori la mancata operazione a Mezzojuso (secondo una certa prospettazione) e tutto si mescola e si confonde… me ne hanno parlato, ma dove, quando, come e perché non lo ricordo più… Come procuratore seguivo queste cose, questa è una cosa di un certo rilievo, non mi ricordo se la Principato me ne ha parlato subito, me ne ha parlato dopo, o me ne ha parlato avendo fatto degli accertamenti… e con quale esito… non me lo ricordo. Se me ne parlarono Mori ed Obinu o qualcuno del Ros una volta morto Ilardo? Mi sembra di no. Se volevano approfondire andavano dalla Principato prima che da me e la Principato poi mi avrebbe riferito... sono passati tutti quegli anni, oltre al difetto di memoria adesso sono anche in difficoltà… no, non sono in difficoltà, va benissimo, però non posso ricordare più di quello che so”. 
Tornando a sviluppare il tema delle eventuali sollecitazioni avute dal Ros su determinati casi processuali il Presidente Montalto cita la vicenda Di Maggio-Maniscalco e la questione della richiesta del Ros di non appellare la sentenza di assoluzione nei confronti di quest’ultimo
Alfonso Sabella all’udienza dello scorso 8 gennaio aveva dichiarato: “so che c'erano state nelle sollecitazioni da parte del Ros dei Carabinieri con il Procuratore della Repubblica (Caselli, ndr), a cui ovviamente Lo Voi non ha proprio assolutamente dato seguito, perché non venisse appellata quella sentenza (di assoluzione per Maniscalco, ndr), questo me lo disse l'attuale Procuratore della Repubblica di Palermo (Francesco Lo Voi, ndr).
Per Caselli quindi: “c'è un errore o di trascrizione o di percezione di quello che ha detto Sabella con il quale ho anche parlato e gli ho chiesto spiegazioni. E Sabella mi fa: ‘io non ho mai detto che tu sei intervenuto su Lo Voi, ho detto che qualcuno è intervenuto’. Voglio smentire. Non ho mai fatto in vita mia una cosa del genere. Ma scherziamo? Non ho un ricordo sulla vicenda… non più di tanto, so che non sono mai intervenuto su Lo Voi e su chiunque altro. Mai”. E a quel punto Montalto insiste: “Sa di aver saputo da Sabella o da altri di sollecitazione venute dal Ros affinchè non si appellasse questa sentenza di assoluzione?”. “Forse anche questo l'ho sentito dopo quando è venuto il problema di Di Maggio che era tornato a delinquere e tutto veniva riletto – sostiene Caselli - può darsi che l’abbia sentito dopo… Ma nel momento in cui si trattava di presentare l’appello, giuro! Non lo avevo mai sentito”. 
Di Matteo cita quindi un documento congiunto delle procure di Palermo e Caltanissetta che indicavano nel Ros la gestione unica del pentito Salvatore Cancemi. L’ipotesi che il Ros volesse “contenere” il più possibile le dichiarazioni “politiche” di Cancemi era stata di fatto suffragata dalle rivelazioni di quest’ultimo su Dell’Utri e Berlusconi, che a suo dire sarebbero stati coinvolti nell’ideazione delle stragi del ’92 (la loro posizione è stata successivamente archiviata, ndr), dichiarazioni esplosive che erano però emerse solamente in un secondo momento.  
In aggiunta al capitolato di prova viene infine affrontata la questione del rapporto mafia-appalti. Anche se le circostanze riguardo alla stesura del documento si sono sviluppate precedentemente all'arrivo di Caselli alla guida della Procura di Palermo lo stesso riferisce alcune circostanze basandosi in particolare sulla relazione che venne inviata alla Commissione parlamentare antimafia nel 1999: “, come la doppia refertazione del rapporto. “Ricordo che vi erano molte polemiche – dice Caselli in aula – C'era un momento di difficoltà con parte del Ros. Quindi si fece questa relazione per chiarire la vicenda”. Di fatto Caselli conferma che “quando la Procura di Catania invia a Palermo per competenza il rapporto si evidenziano anomalie importanti. Le risultanze delle due Procure erano differenti. A Catania vi era un'esclusione della mafia nella gestione del problema degli appalti mentre c'erano i nomi in ambito politico. E quando questi arrivano a Palermo la Procura rimane spiazzata per non dire sconvolta. Nel frattempo sui giornali uscivano le notizie con l'accusa che a Palermo non si indagava su certi soggetti”.

Un futuro ipotecato
Al termine dell’udienza odierna non si può non rimanere basiti di fronte a quelli che lo stesso Caselli ha definito i “gravi limiti” della sua deposizione legati al tempo trascorso che ha reso “complicatissimo” ricordare. Nessuno mette in discussione i grandissimi meriti dell’ex Procuratore di Palermo nella lotta contro il terrorismo e contro la mafia, né tanto meno ci si dimentica dell’accanimento politico-istituzionale di cui è stato vittima con tanto di legge “contra personam” che gli ha impedito di rivestire il ruolo di Procuratore nazionale antimafia. E soprattutto non si sottovaluta la condanna a morte nei suoi confronti decretata anni orsono da Cosa Nostra. La questione è un’altra. Giancarlo Caselli è stato un testimone d’eccellenza negli anni delle stragi e della trattativa tra Stato e mafia. Da un uomo delle istituzioni come lui ci si sarebbe aspettato un contributo ben più solido in questa ricerca della verità per fare luce sulle zone d’ombra che ancora permangono su quel periodo. Ma così non è stato. La sensazione che resta, invece, è quella che gli avvenimenti da lui narrati siano finiti sotto una lente di ingrandimento che ha fortemente sminuito la loro portata, arrivando a snaturare la gravità stessa dei fatti narrati, con evidenti contraddizioni che si commentano da sole. Le ragioni - sconosciute - di questa sua scelta vanno purtroppo a rafforzare quella cortina fumogena che a tutt’oggi impedisce di liberare il nostro Paese dal ricatto politico-mafioso. Che - e questo è l’aspetto peggiore - ipoteca sempre di più il futuro delle nuove generazioni.

giovedì 21 luglio 2016

Trattativa Stato mafia

L'udienza è terminata. Il processo è stato rinviato al 12 novembre, ore 9:30.

http://www.antimafiaduemila.com/dossier/processo-trattativa-stato-mafia/57539-processo-trattativa-in-udienza-il-colonnello-riccio.html

Il rapporto con il confidente Ilardo e il fallito blitz a Mezzojuso
Sarà il Colonnello dei Carabinieri MicheleRiccio, all’udienza di oggi, ad essere sentito in qualità di testimone al processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo. Oggetto dell’esame, nello specifico, il rapporto con il confidente Luigi Ilardo (ucciso in circostanze misteriose appena prima di divenire collaboratore di giustizia) in particolare sulle preziose informazioni che Ilardo diede parlando delle strategie generali di Cosa nostra, delle stragi del ’92 e ‘93, dei rapporti con esponenti della politica e delle istituzioni e soprattutto con l’allora boss latitante Bernardo Provenzano. Proprio il confidente, nel ’95, riuscì a portare il Ros ad un passo dalla cattura di Provenzano, che si nascondeva a Mezzojuso, ma l’appuntamento che Ilardo era riuscito ad ottenere con il boss corleonese si concluse in un nulla di fatto in quanto dai vertici dei carabinieri non ci fu l’ordine di procedere al blitz.
“Provenzano? Era un confidente ad alto livello con le istituzioni. Questo me lo disse Luigi Ilardo. – aveva raccontato Riccio nel corso del processo a carico degli ex ufficiali del Ros Mori e Obinu, accusati di non aver arrestato Provenzano a Mezzojuso – Ilardo mi disse anche che Provenzano parlava con vecchi esponenti della DC: Andreotti, Ligresti e altri”. “Il giorno dell’incontro tra Ilardo e Provenzano – aveva continuato all’udienza – ero presente nella zona perché sapevo che mi sarei dovuto vedere con il confidente”, il quale “mi raccontò dell’incontro con Provenzano. Mi rese anche una descrizione del Provenzano dicendomi che poteva essere benissimo scambiato per un fattore. Mi diede i nomi delle persone, le targhe, i numeri di telefono, tante informazioni su soggetti implicati nella gestione della latitanza. Io girai tutte le informazioni ai miei ufficiali sia a voce che nelle relazioni”. “Il blitz a Mezzojuso era fattibile. – aveva poi commentato – Avevamo a disposizione la strumentazione gps fornita dall’ambasciata americana che avevamo già utilizzato in altre due operazioni. Di questo parlai a Mori a Roma quando ricevetti la notizia da Ilardo dell’incontro con Provenzano. Mi fu detto che avremmo utilizzato gli strumenti in dotazione al Ros e che sarebbe stato meglio compiere un servizio di osservazione dell’incontro tra Ilardo e Provenzano per acquisire ulteriori notizie”. 
Riccio aveva anche raccontato dell’incontro avvenuto negli uffici del Ros tra Mori e Ilardo il 2 maggio 2015, giorno in cui si tenne il primo incontro propedeutico alla collaborazione di Ilardo con le Procure di Palermo e Caltanissetta. “Prima dell’incontro con Tinebra e Caselli, lo presentai a Mori. – spiegava – La scena mi colpì: Ilardo si avvicinò di getto a Mori e gli disse ‘Guardi che molti attentati attribuiti a Cosa Nostra in realtà sono stati voluti dallo Stato’. Mori si irrigidì, strinse i pugni, si volta di scatto e con lo sguardo abbassato esce. In passato Ilardo mi aveva fatto comprendere di molti attentati che erano stati addebitati esclusivamente a Cosa nostra ma dove i mandanti erano parte di questo contesto deviato”.
Il teste aveva poi ricordato un discorso che Mori gli fece in riferimento a Forza Italia, che “avrebbe risolto i problemi dell’Arma. Questo era un discorso che Mori mi fece in più occasioni. Riguardava i problemi di tipo ‘gestionale’, sui rapporti strategici dell’Arma ed anche riguardo alla strategia di gestione dei collaboratori di giustizia. Mori mi disse che bisognava sminuire la questione dei pentiti perché tutto si doveva fermare in quanto i collaboratori potevano far fare un salto alle indagini”.

NEWS24

18 luglio 2013, 06:42

Mafia, assolto il generale Mori

«Non favorì Cosa nostra» - La reazione: «C'è un giudice a Palermo» - MARATONA GIUDIZIARIA - La decisione assolutoria è arrivata dopo cinque anni, cento udienze e novanta testi ascoltati L'accusa annuncia il ricorso

Dopo l’assoluzione dei due carabinieri nel luglio 2013, il tribunale ha quindi trasmesso gli atti in procura per capire se Riccio avesse o meno testimoniato il falso. E per questo che testimoniando nel processo d’appello davanti ai pg Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, Riccio depone comeindagato di reato connesso. Questa volta però il racconto dell’ex colonnello si arricchisce di una nuova rivelazione: la collaborazione di Ilardo doveva servire all’inizio per capire chi fossero i mandanti a volto coperto delle stragi del 1992, e soltanto in seguito venne utilizzata per catturare Provenzano.

11 marzo 2011

ROMA - La Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni 10 mesi e 20 mila euro di multa a carico di Michele Riccio, ex comandante dei Ros e della Dia genovese accusato di detenzione e spaccio di stupefacenti finalizzato a favorire i suoi confidenti e consentirgli di fare operazioni di successo per ottenere avanzamenti di carriera. La decisione è stata presa in serata dalla Terza sezione penale. I supremi giudici, inoltre, hanno confermato la pena a 24 anni di reclusione per l'ex maresciallo Giuseppe Del Vecchio, implicato nella stessa vicenda con reati in continuazione. Per Del Vecchio i giudici di merito dovranno ricalcolare l'entità della condanna alla multa di 210 mila euro. Con questo verdetto della Cassazione esce sostanzialmente convalidata la sentenza emessa il 14 luglio 2009 dalla Corte d'appello di Genova.

Per altri particolari
http://segugio.daonews.com/2009/11/02/intervista-a-giuseppe-del-vecchio/

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enrix 18:50 on 2 novembre 2009 Rispondi
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INTERVISTA A GIUSEPPE DEL VECCHIO

Antimafia fiction: Intervista a Giuseppe Del Vecchio

Un sacco di buone ragioni per dubitare delle verità del superteste Riccio

di Chiara Rizzo

Il processo palermitano al generale Mario Mori nasce dalle dichiarazioni del colonnello dei carabineri Michele Riccio, che nel ’95 lavorò alla cattura di Bernardo Provenzano nell’operazione “Scacco al re”. Già allora Riccio, grazie alle indicazioni fornite dal mafioso Luigi Ilardo, sarebbe stato sul punto di catturare Provenzano, ma Mori avrebbe bloccato tutto. Michele Riccio è un teste rilevante per la procura palermitana: nella catena di accordi tra mafia e Stato, le sue dichiarazioni servono a provare l’anello più importante, l’accordo tra malavitosi e Berlusconi. Riccio riporta infatti le confessioni che gli avrebbe fatto Ilardo, di un elenco di politici in trattativa con la mafia, tra cui Marcello Dell’Utri. Cosa c’è di vero nelle accuse di Riccio? Chi è davvero il grande accusatore di Mori? Il colonnello Riccio è stato alla guida del Ros e della direzione investigativa antimafia (Dia) di Genova fino al 1995, mettendo a segno operazioni contro il narcotraffico, tanto clamorose da far meritare alla sua squadra l’apellativo di “mitica”. Nel 1997, però, Riccio è stato arrestato per la gestione disinvolta dei suoi uomini, delle fonti criminali e dei reperti di indagine. Condannato in primo grado nel 2003 per falso ideologico (per la falsificazione di relazioni di servizio) e traffico di stupefacenti (usava i reperti per ricompensare le fonti), il 14 luglio 2009, in appello, Riccio ha visto la sua pena dimezzata. La prima stranezza sta qui. Perché ad oggi, per i reati di cui sono accusati il colonnello e “La mitica squadra” di Genova, di fatto paga una sola persona: il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Del Vecchio, uno dei più stretti collaboratori di Riccio, agli ordini del quale ha lavorato come agente infiltrato in molte operazioni. Per i tribunali sarebbe stato proprio Del Vecchio il responsabile principale dei reati commessi dagli investigatori genovesi. Mentre Riccio, il vertice di un reparto militare dell’Arma con una forte organizzazione gerarchica, avrebbe visto, saputo e, misteriosamente, lasciato fare. Una strana conclusione, quella dei giudici genovesi. Anche perché Riccio stimava il suo sottufficiale tanto da affidargli incarichi anche nell’operazione più delicata, “Scacco al re”. Secondo il procuratore generale di Genova, Pio Macchiavello, che ha sostenuto in appello l’accusa contro Del Vecchio e Riccio, «a Genova si è preferito credere al “maresciallo” Riccio che non al maresciallo Del Vecchio: nel senso che hanno preferito far passare il colonnello come vittima dei suoi sottoposti». 
Oggi, dal carcere di Chiavari dove sta scontando la sua pena, Del Vecchio accetta di raccontare a Tempi la verità sul metodo Riccio. Non vuole passare come una vittima: «Mi assumo le mie responsabilità, ma voglio equità, che si faccia davvero luce sui fatti accaduti a Genova, senza fermarsi alla superficie», dice. La sua testimonianza, riscontrata in aula anche da altre fonti, compreso il maresciallo coimputato Vincenzo Parrella, è ritenuta veritiera dal procuratore Macchiavello, per il quale «quando vi è contrasto tra le dichiarazioni del colonnello e quelle dei marescialli, il colonnello non è credibile e sono decisamente attendibili e provate le dichiarazioni dei marescialli. Nei reparti genovesi il comandante era Riccio, credo che nulla si svolgesse senza che lui decidesse. La verità è che ci sono casi in cui il colonnello ha reso confessione, poi ha ritrattato, e il tribunale ha creduto solo alla ritrattazione. Il colonnello è stato assolto anche per episodi sui quali aveva reso confessione». 
Ma non finisce qui. Riccio è stato coinvolto anche in un altro processo a Torino, dove è stato giudicato per il reato di calunnia ai danni di alcuni magistrati liguri che indagavano sul suo conto. Non ha riportato condanne, ma, ancora una volta, l’immagine di Riccio emersa dall’aula di giustizia piemontese è tutt’altro che luminosa. «È dato storico accertabile che i sottufficiali condannati non rappresentavano delle “mele marce”, proprio in virtù del ruolo che lo stesso Riccio ha svolto, non solo non impedendo ma, anzi, gestendo in prima persona attività illecite» hanno sostenuto nella requisitoria il pm Andrea Padalino e il magistrato onorario Cosimo Maggiore: «Il colonnello Riccio è persona carismatica, dotata di un non comune, e purtroppo criminale, spirito d’iniziativa». 
Altri riscontri dei fatti raccontati da Del Vecchio in questa intervista arrivano da Palermo. Agli atti del processo Mori c’è un documento della Dia centrale di Roma, la struttura in cui Riccio lavorava all’epoca della caccia a Provenzano. Nel documento, datato 13 settembre 1995, sono espresse forti perplessità sugli arresti condotti da Riccio grazie alle indicazioni della fonte Ilardo nel corso della caccia a Provenzano. Dubbi basati sulla considerazione «che la fonte potesse avere un interesse strumentale, in senso strategico criminale, ad eliminare individui scomodi per se stessa». Il colonnello potrebbe anche aver favorito coscientemente la “scalata” a Cosa nostra di Ilardo, sperando di arrivare a Provenzano. Ma c’erano possibilità che un simile piano andasse in porto? «Escludo categoricamente che il colonnello Riccio mi abbia mai parlato di una possibilità concreta e immediata di catturare Provenzano, per la cui cattura si rimase invero sempre in attesa che il latitante fissasse con l’Ilardo un appuntamento», ha raccontato ai giudici palermitani l’attuale procuratore di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, che nel ’95 era il pm referente di Riccio per l’indagine. Insomma, ci sono buone ragioni per dubitare delle verità di Riccio. Ma perché allora il tribunale di Genova ha ammorbidito il suo giudizio sul “metodo Riccio” tanto da “ripulire” di fatto l’immagine del colonnello superstar della procura di Palermo?

Maresciallo Del Vecchio, come ha conosciuto il colonnello Michele Riccio?
Nel 1989, quando avevo 24 anni, lavoravo nel reparto operativo dei carabinieri di Genova. Riuscii a individuare e catturare Valentino Gionta, boss della camorra, all’epoca uno dei principali ricercati del paese. Durante la caccia a Gionta erano successe diverse cose strane. Un dirigente dell’Alto commissariato per la lotta contro la mafia venne a Genova e mi propose il trasferimento a Roma, con stipendi da favola e prospettive strepitose, se avessi fatto catturare loro Gionta. Rifiutai, ma le pressioni proseguirono. Mi offrirono anche trecento milioni in contanti. Non accettai per rispetto al mio superiore dell’epoca. Alla fine, riuscimmo a catturare il boss. Fu questo l’episodio che mi ha posto all’attenzione di Riccio. Io lo vedevo come una sorta di eroe.

Ne aveva già sentito parlare prima di allora?
Sì, in accademia si studiavano le sue operazioni, era considerato un precursore nella lotta ai narcotrafficanti, si parlava di lui e dei suoi uomini come miti. Avrei fatto tutto quello che mi chiedeva. Appena arrivato, gli dissi che avevo un contatto con uno spacciatore che mi aveva parlato di un traffico a Modena. Chiesi di essere messo in condizioni di infiltrarmi: lui mi fornì subito una Porsche, una Bmw, un mucchio di soldi, in modo che potessi fingermi un pezzo grosso del narcotraffico. Erano mezzi forniti al reparto da un faccendiere. Riccio trasferiva per conto suo capitali all’estero, in cambio lui metteva quanti più mezzi a disposizione dei carabinieri. La mia prima indagine andò a buon fine e Riccio mi affidò subito incarichi delicati. Mi legai sempre di più a lui, e questo significò seguirlo in tutte le iniziative, anche le più scellerate.

Come si lavorava all’interno del reparto?
Riccio è un’accentratore di prim’ordine. Non delegava a nessuno, assolutamente. Voleva essere informato in tempo reale di tutto quello che avveniva nelle operazioni e nessuno si sognava di fare diversamente, dagli operativi sul campo come me agli addetti alle intercettazioni. Anche le “fonti” nella criminalità diventavano sue: non si poteva fare un’indagine senza presentarle a Riccio. Anche perché gli stessi confidenti ne avevano l’interesse, visto che c’era un rapporto di “do ut des”.

I magistrati che coordinavano le operazioni cosa sapevano di quello che accadeva?
Era Riccio che gestiva i rapporti con loro, e per anni ci ha sempre detto che sapevano tutto e approvavano i nostri metodi. Quando fui arrestato, nel ’95, Riccio mi disse che era un complotto dei giudici, per colpire lui arrestavano i suoi uomini. È stato questo l’oggetto della sua frode finale: i magistrati non sapevano come in realtà venivano condotte le indagini. Ma nei reparti di Riccio non c’erano altri referenti, ecco perché potevano accadere cose anomale.

Per esempio?
La gestione dei reperti sequestrati, droga, armi o denaro. Il corpo di reato andava depositato subito all’autorità giudiziaria, mi avevano insegnato. Al mio arrivo al Ros nel ’90, invece, trovai questi armadi blidati che contenevano armi sequestrate addirittura alle Brigate Rosse. La caserma di corso Europa, dove in seguito ci trasferimmo, aveva un piano in disuso dove vennero sistemati i residui dei sequestri. Ci trovai anche droga a chili: reperti che risalivano ad anni prima. In seguito, fu lì che Riccio permise a una sua fonte, Angelo Veronese, di raffinare cocaina per mandare avanti un’operazione sotto copertura. È stato condannato per questo.

Lei è accusato di detenzione illecita di stupefacenti e di cessione di droga ad alcune fonti, anche se non avrebbe ricevuto nulla in cambio. Cosa succedeva?
Il metodo per procurarci delle informazioni era dare qualcosa alle fonti e ai collaboratori, per mandare avanti le operazioni. Riccio stesso ci ordinava di mettere da parte i reperti, e di consegnarli via via come ricompense.

In un caso è accusato di aver ricevuto 50 milioni in cambio di tre chili di cocaina, che valevano 210 milioni. In quel caso che successe?
Non ho mai preso quel denaro. Al processo è stato provato che i 50 milioni in realtà li ho restituiti: successe dopo il furto della cassaforte alla Dia.

Come un furto? Negli uffici della Dia?
Esattamente: nell’agosto del 1994. Nella cassaforte erano custoditi da qualche mese 90 mila dollari, sequestrati a due corrieri di droga durante un’operazione. Al processo, Riccio ha ammesso di aver usato parte dei dollari per mandare avanti l’operazione, mentre gli altri sparirono nell’estate. Eppure la cassaforte si apriva solo con una combinazione, che conoscevano due persone dell’ufficio, Riccio e un altro maresciallo. Sarebbe stato impossibile prendere quei soldi senza che ne fossero informati il collega e il colonnello, eppure al processo si è arrivati a sostenere che io sia andato a chiedere la chiave al collega. Ma se la cassaforte era a combinazione, che c’entrava la chiave? In realtà Riccio ci convocò chiedendoci di appianare l’ammanco e raccomandandosi di non denunciare il furto: nell’ufficio c’erano delle lotte intestine, se si fosse saputo della sparizione dei soldi ci avrebbe rimesso lui. «Voi dovete assolutamente mettere a posto questa situazione», disse. Chiedemmo in prestito 50 milioni a due informatori della sezione, per fare delle speculazioni con cui ripianare l’ammanco: soldi che restituii, come hanno testimoniato i due informatori. Anzi, non riuscendo a ripianare del tutto il furto, io, Riccio e altri due marescialli alla fine mettemmo dodici milioni di tasca nostra: anche quest’ultimo fatto è stato accertato. Perché, quando al processo contro Riccio e me si è parlato della cassaforte, non si è mai indagato oltre? Che fine fecero quei soldi? All’epoca dell’ammanco Riccio faceva la spola tra Genova e la Sicilia, dove prendeva contatti con Ilardo: è possibile che abbia preso Riccio quei soldi? Che li abbia consegnati a Ilardo? Sono domande a cui non trovo risposta.

Perché avrebbe dovuto consegnarli a Ilardo? 
Perché Ilardo era in difficoltà economiche, ma aveva bisogno di crescere in seno a Cosa nostra, per ottenere informazioni e portare Riccio alla cattura di Provenzano. Nel 1995, fui incaricato dal mio superiore di consegnare a Ilardo alcune decine di milioni di lire. Non solo, in quello stesso periodo, un giorno Riccio mi portò ad Alessandria, dove ci incontrammo proprio con Ilardo. Aveva bisogno di soldi e doveva fare da prestanome per l’acquisto di un’immobile a Nizza; in cambio gli avrebbero dato circa 40 milioni di lire. Ma non voleva esporsi, così Riccio mi chiese di prendere il suo posto. Obbedii anche quella volta, ingenuamente. Dopo il mio arresto, Riccio mi raccomandò di tacere su questo episodio. Con i giudici mi limitai a parlare di una speculazione, senza difendermi. Ilardo era solo un disperato a caccia di soldi quando incontrò Riccio. Questo del denaro non è l’unico episodio strano che riguarda i rapporti con Ilardo. C’è anche tutto il capitolo dei diari.

Si riferisce alle agendine su cui Riccio annotava il suo lavoro, e che oggi usa come prove contro Mori?
Sì, esattamente. C’è stata una perizia, di un professore, Agosti, che ha stabilito che in quelle agende sono state fatte delle aggiunte “postume”. Non solo. A Genova Riccio è stato condannato per falso ideologico: nei documenti che poi sarebbero diventati parte di processi penali, o informative per i magistrati e i superiori gerarchici, era solito mescolare insieme fatti o persone che non avevano alcun legame nella realtà. Obbligava chi partecipava all’indagine a scrivere una cosa per un’altra. Ho assistito alla costruzione di favole. Questa sua capacità di mischiare, misconoscere certi fatti la dice lunga sulle verità che lui potrebbe raccontare.

28 ottobre 2009