La storia del 41-bis

L'articolo 41-bis della Legge del 26 luglio 1975, n. 354 (1) (legge sull'ordinamento penitenziario) è stato introdotto dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, prevedendo la possibilità per il Ministro della Giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla stessa legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza.
Per questo è stato deciso di adottare una riforma detta tass.

L'articolo è stato emendato dall'art.19 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306, che ha esteso tale facoltà ministeriale di sospensione delle regole di trattamento ai casi di detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo o eversione, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica.

In questo secondo caso la legge specifica le misure applicabili, tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta "ora d'aria"), la censura della corrispondenza.[2]
Alle stesse categorie di detenuti si applica l'art. 4 bis della stessa legge, che subordina la concessione di benefici carcerari e misure alternative alla detenzione (permessi premio, lavoro all'esterno, affidamento ai servizi sociali, semi-libertà, detenzione domiciliare) alla collaborazione con la giustizia.
Il complesso di queste misure è generalmente noto come "carcere duro".

Storia [modifica]

L'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario è stato introdotto con la legge 10/10/86 n. 663[3] (cosiddetta Legge Gozzini) e riguardava inizialmente soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza. A seguito della strage di Capaci del 1992 fu introdotto (decreto-legge 8/6/92 n. 306, convertito con legge 7/8/92 n. 356) un secondo comma che rendeva possibile l'applicazione del regime speciale ai detenuti per reati di criminalità organizzata; tale disposizione era valida per tre anni, ma successivi interventi legislativi (a partire dalla legge 16/2/95 n. 36) ne hanno prorogato di anno in anno la validità.
Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime ex art. 41-bis. Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.[2][4]
In occasione del decennale della strage di Capaci il 24 maggio 2002 il Consiglio dei ministri approvò un disegno di legge che prevedeva:
  1. la proroga per ulteriori quattro anni dell'art. 41 bis (secondo comma), scadente al 31 dicembre 2002;
  2. l'applicazione anche ai reati di terrorismo ed eversione dei regimi speciali previsti dagli art. 4 bis e 41 bis.
Il Ministro della Giustizia Castelli avrebbe peraltro voluto rendere permanente la validità dell'art. 41 bis. In tal senso si orientò il Parlamento che con la legge 23/12/02 n. 279[5] approvava le proposte governative aggiungendo appunto la validità permanente dell'art. 41 bis la cui vigenza non ha quindi attualmente più alcun limite temporale.
Si veririficò una forte opposizione parlamentare all'introduzione dell'art. 41 bis, contenuto nella cosiddetta "Legge Martelli", opposizione praticata dalle forze di sinistra (escluso ovviamente il PSI) e dal Partito Radicale, fin dal 1993 (approvazione della c.d. "Legge Martelli" (n. 39/1990) da cui iniziò il processo di reintroduzione del "carcere duro".[senza fonte]
« La realtà dell'applicazione del 41bis è sicuramente più grave di quanto la Corte mostri di conoscere. »
(Il manifesto9 settembre 1993)


(1) ^ Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà

(2)  a b Il regime di "carcere duro" ex art. 41-bis comma 2 o.p. Analisi degli aspetti giuridici ed applicativiL'altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginali





Nicolò Amato

Magistrato 



Ha lavorato quasi sempre alla procura della Repubblica di Roma, partecipando a molti fra i più importanti e clamorosi processi di questi anni: contro i Nuclei armati proletari, contro Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e contro le Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. 
E' nato a Messina nel 1933. 
Dal 1983 è direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena e in tale qualità ha dato all'Amministrazione penitenziaria un impulso fortemente innovatore, determinando una straordinaria applicazione delle riforme del 1975 e del 1986 ed una generale e profonda trasformazione dell'universo carcerario nel senso di quello che egli ha più volte chiamato un carcere della speranza.
Pubblicazione:

di Nicolò Amato edito da Mondadori, 1990
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Nicolò Amato e il carcere possibile


di Patrizio Gonnella
Nicolò Amato era molto amato in quei luoghi che oggi si chiamano Dap. Si dice che lo fosse anche dalle donne del Dap. Allora il Dap si chiamava Direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. All’età di cinquant’anni ne divenne il capo, indiscusso. Era il 1983 (Bettino Craxi era Presidente del Consiglio). Amato prima aveva fatto il magistrato alla Procura della Repubblica di Roma: portò avanti le inchieste sui Nuclei armati proletari, su Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e sulle Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Nei suoi anni all’amministrazione penitenziaria parlava di carcere della speranza e fu, a suo modo, un vero innovatore. Per certi versi, un autentico e coraggioso riformatore. Scrisse un libro che si studiava nelle università: “Diritto, delittocarcere”. Così Miriam Mafai titolava un suo articolo del 17 marzo 1988: “Il sogno di Nicolò Amato: carcere solo per pochi e tante pene alternative.” Scriveva la Mafai: “Insomma nei nostri ministeri lavorano uomini come Di Palma, direttore generale del ministero dei Lavori pubblici, oggi latitante, e uomini come Nicolò Amato, direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena. Una contraddizione non da poco che ieri qualcuno ha rilevato maliziosamente, nel corso della affollata assemblea di uomini politici, giornalisti, alti funzionari, che si era riunita per discutere dell' ultimo libro di Amato con il quale si sostiene appunto con ricchezza di argomentazione giuridica e umana passione civile la necessità (non l' utopia) di un carcere comminato solo per pochissimi gravi reati e comunque, anche in questo caso, trasformato e reso più umano e civile… Nicolò Amato, che per tanti anni ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero a Roma, non mi sembra mosso da sentimenti di questo tipo, ma anzi da una rigorosa concezione della giustizia e del suo ruolo. Nella sua carriera, egli ha chiesto più di un ergastolo. E' ben vero, come spesso si dice, che tutti i giudici dovrebbero sapere cos' è il carcere prima di condannare qualcuno ad entrarvi. Ma non mi sembra lecito pensare che, nel sostenere le ragioni di questa grande riforma penale e penitenziaria, Amato sia mosso solo dalla conoscenza più ravvicinata del carcere che gli deriva dal suo attuale ruolo. C'è invece, nella sua richiesta di abolire il vecchio carcere e d'inventarne uno nuovo basato sulle regole del diritto, una concezione alta della giustizia che, come diceva ieri lo stesso Amato a conclusione del dibattito, sembra madre di due figli, uno legittimo: il processo, e uno illegittimo: il carcere. Del primo già orgogliosa, del secondo si vergogna un po’ . Sul primo accende i riflettori, sul secondo fa scendere il silenzio. Ecco Nicolò Amato, prima giudice e pubblico ministero e oggi direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, vuole rompere questo silenzio, accendere i riflettori anche su questa zona buia della società, perché anche il carcere, quando necessario e nei modi in cui sia necessario, appaia a pieno titolo figlio legittimo della giustizia.” Poi scoppiò Tangentopoli. Craxi fu travolto. Nicolò Amato fu sostituito da alcuni personaggi minori. Promoveatur ut amoveatur. Fu mandato a Strasburgo a far parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Si offese e indignò così tanto che non partecipò neanche a una seduta del Comitato né fece una visita ispettiva. Iniziò a fare l’avvocato, sempre amico fedele dei socialisti. “Roma, il PSI scende in campo capolista sarà Nicolò Amato”. Così titolava il Corriere della Sera nel settembre del 1993. Il 12 febbraio del 1994 accompagna Craxi in Procura a presentare i dossier su Occhetto e D’Alema. Due mesi dopo, alle elezioni politiche, vince Silvio Berlusconi. Tra il 1994 e il 1998 diventa il difensore di Giuseppe Madonia. Il 7 maggio del 1998 aderisce ad Alleanza Nazionale: “Le risposte programmatiche di An ai problemi del Paese mi sembrano le più moderne ed efficaci”. Qualcuno dice che poi sia anche passato dalle parti dell’Udeur, ma non sono in grado di confermare la notizia. La storia di Amato è così riassumibile: dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.
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(AGENPARL) - Roma, 24 mag - "Ieri sera ho visto un'intervista a Nicolò Amato, ex direttore del Dap che mi ha indignato. Egli rifiuto' l'introduzione del 41bis perche' riteneva che la situazione nelle carceri sarebbe andata fuori controllo. Lui ricopriva quell'incarico da 11 anni. Nel luglio del 1992 quando si tratto' di individuare i mafiosi da trasferire al 41 bis, Amato spari' tanto che dovetti firmare io quei provvedimenti. Una settimana dopo per pararsi il culo mando' una lettera per chiedere che 5000 detenuti, anche piccoli spacciatori, fossero trasferiti al carcere duro. E' un mistificatore e credo che lo denuncerò come tale. Io subii tre attentati dopo quella misura, Amato una volta lasciato l'incarico divento' l'avvocato dei mafiosi tra cui Vito Ciancimino. ". Così Claudio Martelli Ministro della Giustizia all'epoca delle stragi del '92 durante la presentazione del fumetto su Caponnetto realizzato dalla round Robin e l'associazione Dasud.
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(AGENPARL) - Roma, 24 mag - "L'ex ministro Conso ha dichiarato alla commissione antimafia di aver deciso autonomamente di togliere ad alcuni detenuti il regime del carcere duro, pensando di fermare le stragi e allentare la morsa di cosa nostra". 
Così Claudio Martelli Ministro della Giustizia all'epoca delle stragi del '92 durante la presentazione del fumetto su Caponnetto realizzato dalla round Robin e l'associazione Dasud


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(AGENPARL) - Roma, 24 mag - "Quando io lascio nel 1993 il ministro della Giustizia, la prima riunione del mio successore riguardava il 41 bis che aveva creato risultati positivi. Non si penso' a come rafforzare quello strumento, ma a come demolirlo. Amato voleva abrogarlo per legge, Conso senza cambiare la legge toglie i detenuti dal carcere duro e li trasferisce tutti in regime ordinario. Questo accadeva tre giorni dopo le mie dimissioni. Tutta questa storia non e' trapelata neppure nella stampa". Così Claudio Martelli Ministro della Giustizia all'epoca delle stragi del '92 durante la presentazione del fumetto su Caponnetto realizzato dalla round Robin e l'associazione Dasud




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di Giovanna Maggiani Chelli* - 5 giugno 2012
Illustrissimo Professore, Lei è stato un uomo delle istituzioni di questo Paese e sa benissimo cosa vuol dire la parola giustizia.
Noi familiari delle vittime delle stragi del 1993 abbiamo fatto il diavolo a quattro - lo dice la sentenza stessa - perché anche Lei fosse sentito in aula a Firenze durante il processo Tagliavia, in quanto persona informatissima dei fatti inerenti il regime carcerario di "41 bis" prima che avvenissero le stragi del 1993 e il conseguente massacro dei nostri parenti.
Il giorno in cui la Corte di Assise di Firenze doveva verbalizzare le Sue parole, Lei ha presentato un certificato medico e lamentando gravi condizioni di salute non abbiamo avuto il piacere di sentirLa nelle dovute sedi.
I giornali sono il mezzo più idoneo e giusto che esista per informare i cittadini italiani di ciò che sta avvenendo intorno a loro, ma non sono gli organi istituzionali preposti a dare giustizia alle vittime della mafia stragista.
Comunque, la mafia è ricorsa in appello contro la condanna di Tagliavia in primo grado e noi rifaremo il diavolo a quattro affinché Lei sia ascoltato in una un'aula di giustizia e non sui giornali attraverso lettere pubblicate per intero.
Auspichiamo veramente che Lei per quell'epoca stia bene, sia sempre così loquace come lo è sui quotidiani oggi e venga a dirlo ai Giudici della corte di Appello di Firenze, come sarebbero andate le cose secondo Lei smentendo questo e quello.
Noi abbiamo avuto i figli ammazzati per la sporca questione del "41 bis", e il tempo del gioco al massacro fra le Istituzioni di allora è arrivato il momento che finisca, serve serietà e senso dello Stato, non voglia di apparire sui giornali in autodifese senza senso alcuno, perché noi illustre Professore è di giustizia che abbiamo bisogno non di parole al vento buone per tacitare coscienze che non ci interessano.
Cordiali saluti

* Presidente Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili

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18 nov 2010 – (Adnkronos/Ign) -

Quella revoca del 41 bis nel '93



L'ex direttore del Dap, Nicolò Amato, ieri è stato sentito dai magistrati della Dda di Palermo
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Massimo Ciancimino
E' durato quasi 4 ore l'interrogatorio dell'ex direttore del Dap, Nicolò Amato, ieri davanti ai magistrati della Dda di Palermo, nell'ambito delle indagini sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Il verbale, al termine dell'interrogatorio, è stato secretato dai pm.
Amato ha spiegato al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e ai pm Antonino Di Matteo e Paolo Guido i motivi che lo hanno spinto nel '93 a chiedere la revoca del carcere duro, il 41 bis per i detenuti mafiosi. I magistrati hanno deciso di ascoltarlo dopoil documento redatto dallo stesso ex capo del Dap e indirizzato all'allora Guardasigilli in cui si chiedeva la revoca del 41 bis (LEGGI). E' stato, di recente, l'ex ministro della GiustiziaGiovanni Conso a parlarne davanti alla commissione nazionale antimafia. In quella occasione Conso disse di avere deciso di non rinnovare il 41 bis a 140 boss mafiosi "in assoluta autonomia".






Davanti ai pm Amato ha ribadito con forza di non avere "mai saputo niente della trattativa" tra lo Stato e Cosa nostra, di averne appreso "solo dai giornali" e che la sola idea "lo ripugna perché è una cosa oscena". Ha confermato anche con fermezza che riscriverebbe oggi il documento nel quale chiedeva la revoca del 41 bis per i mafiosi("Porca miseria, era scritto benissimo...") e ha annunciato unaquerela "per calunnia" per Massimo Ciancimino.
Nel corso dell'interrogatorio Amato ha parlato di "pressanti insistenze"da parte del Viminale per ottenere la revoca dei decreti del 41 bis per le carceri di Secondigliano e Poggioreale. Il 12 febbraio del 1993, un mese prima che l'allora direttore del Dap Nicolò Amato scrivesse il documento in cui chiedeva al Guardasigilli Giovanni Conso di revocare il 41 bis, si era riunito al Ministero dell'Interno a Roma il Comitato per l'Ordine e la Sicurezza pubblica in cui furono espresse delle riserve sulla durezza del carcere duro per i mafiosi. Sarebbe stato soprattutto l'allora capo della Polizia Vincenzo Parisi a parlare di "eccessiva durezza" del 41 bis.
Parlando dell'appunto del 6 marzo del 1993, oggi a distanza di 17 anni l'ex direttore del Dap ha spiegato: "Si è tanto parlato di questo mio appunto, ho sempre sostenuto che la reazione durissima contro la mafia, del 41 bis, dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio era imposta. Ma penso che il 41 bis, come l'articolo 90, sono configurati dalla legge come strumenti temporali per motivi di ordine pubblico. Nel documento ho fatto proposte che sono contro la mafia. Chi legge questo appunto si rende conto che se avessero fatto nel 1993 quello che io proponevo al ministro, la risposta alla mafia sarebbe stata molto più dura". "Innanzitutto, se si ritiene che sia giusto che i detenuti di mafia abbiano un trattamento più restrittivo, non serve il 41 bis, ma serve che con una legge approvata in tre giorni, sia previsto che questi detenuti abbiano un trattamento più limitato". E ha aggiunto: "Io nel 1993 dissi una cosa importante, che ora è stata applicata a distanza di quindici anni: se vogliamo davvero impedire il collegamento tra i mafiosi e l'esterno, basta registrare i colloqui. Questa cosa non è stata fatta all'epoca, adesso sì".A chi gi ha chiesto se oggi riscriverebbe il documento di 17 anni fa, Amato ha sorriso e serafico ha risposto: "L'ho riletto proprio pochi giorni fa, dopo le dichiarazioni del ministro Conso e mi sono detto, 'porca miseria ma è scritto proprio bene'. Certo che lo rifarei, ma ho scritto delle cose che nessuno ha letto e che nessuno ha capito. E' meno comprensibile che nessuno continui a capire e a leggere ciò cho scritto perché presentare il documento identificato nelle due righe in cui dico che è opportuno revocare il 41 bis non è giudizioso, è stato estrapolato da un contesto più ampio. Ma in Italia fare cose intelligenti è sempre molto complicato".



Dopo l'incarico al Dap, Amato divenne l'avvocato di Vito Ciancimino. Nei giorni scorsi il figlio dell'ex sindaco di Palermo ha detto che fu una scelta fatta "su spinta di rappresentanti delle istituzioni". Ieri, sentito dai pm della Dda di Palermo, ha aggiunto un altro tassello: "Ci fu suggerito da Mario Mori""Nel giugno del '93 io e l'avvocato Giorgio Ghiron andammo a Roma dove Mori ci suggerì il nome di Amato come difensore di mio padre che all'epoca era già detenuto". Vito Ciancimino venne arrestato nel dicembre del '92 e morì, ai domiciliari nel 2002.
Le dichiarazioni di Ciancimino jr sono state smentite con forza da Amato."Non si può permettere di buttare fango senza neppure sapere di che cosa parla" ha detto, girando e rigirando l'anello al dito con una decina di zaffiri blu scuro. "Vito Ciancimino - ha spiegato Amato - arriva al mio studio legale come decine di altri detenuti. Quando lasciai il Dap cominciai a fare l'avvocato, godevo una certa notorietà e Ciancimino era dei tanti, tantissimi che chiesero di avermi come difensore". Poi ha ribadito anche di non avere mai "frequentato" il generale Mario Mori"Molti anni fa era il Comandante del Nucleo investigativo di Roma e io ero sostituto procuratore a Roma e mi sono avvalso qualche volta della sua collaborazione. Lo conosco ma dico con chiarezza di non averlo mai frequentato, cioè qualcosa di pù di una conoscenza, né ho mai avuto occasione, voglia o interesse di parlare con Mori delle persone che difendevo".

Massimo Ciancimino, alla fine dell'audizione dei magistrati, durata oltre due ore (una parte dell'interrogatorio ha riguardato l'analisi della documentazione sui investimenti del padre nella realizzazione del complesso edilizio Milano 2 dell'allora imprenditore Silvio Berlusconi, ndr), ha detto: "Sono contento che almeno le mie rivelazioni hanno smosso le acque torbide, anche a livello istituzionale e che qualcuno cominci a parlare"Sul ritrovamento di una pistola carica nell'androne del palazzo in cui vive a Palermo, Ciancimino ha aggiunto: "Certo, non sono cose che fanno piacere. La questura sta facendo di tutto e le misure di sicurezza sono state adottate. Io, dal canto mio, continuerò a parlare"


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da panorama.it

http://italia.panorama.it/Misteri-di-Stato-Parla-Nicolo-Amato-mi-hanno-cacciato-per-trattare-con-la-mafia


Misteri di Stato. Parla Nicolò Amato: mi hanno cacciato per trattare con la mafia

L’ex capo delle carceri rivela: «Nel 1993 Cosa nostra ottenne la mia testa. Ho i documenti che lo provano».

  • 07-05-2012



Fui cacciato a pedate nel sedere. Senza un perché. Ma oggi l’ho capito, grazie a documenti che non conoscevo: li avevano tenuti nascosti perché troppo imbarazzanti; avrebbero svelato aspetti inquietanti della cosiddetta trattativa Stato-mafia per l’abolizione del carcere duro». Nicolò Amato era direttore del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, quando nel 1992 Cosa nostra inaugurò la stagioni delle stragi. Il 4 giugno 1993 fu improvvisamente rimosso. A volere la sua testa fu il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, d’accordo con il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi e con il ministro della Giustizia Giovanni Conso.
Ma perché la cacciarono?
Perché ero un ostacolo a ogni trattativa o tacita intesa con la mafia. Sono stato vittima di una trama squallida e oscena, che ha riguardato le istituzioni che rappresentavo. Dopo l’assassinio di Giovanni Falcone attuai verso i mafiosi in carcere la risposta più dura. Riaprii le carceri di massima sicurezza di Asinara e Pianosa e proposi al ministro della Giustizia Claudio Martelli l’applicazione del 41 bis ai 532 boss più noti. Poi, dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, inviai un appunto al ministro per estendere il regime duro a tutti i 5.300 detenuti di mafia: non sempre conoscevamo le esatte gerarchie mafiose.
Un detenuto apparentemente poco importante poteva essere in realtà un capo?
Sì. Bisognava impedire ai detenuti di mafia di utilizzare altri detenuti e troncare ogni possibilità di comunicazione illecita con l’esterno. Così individuai 121 carceri o sezioni di carceri in cui mettere quei 5.300 mafiosi e chiesi a Martelli di varare un solo decreto 41 bis su quelle 121 strutture invece di tanti provvedimenti ad personam.
La risposta di Martelli?
Girò il mio appunto all’ufficio legislativo e alla direzione affari penali del ministero. Una procedura del tutto insolita, visto che la mia proposta non prevedeva modifiche di legge e quindi quei due uffici non avevano alcuna competenza. Allora scrissi al ministro, chiedendogli di assumersi responsabilità dirette. Ma lui si rifiutò e si limitò a rilasciarmi una delega per l’applicazione del 41 bis. Feci quel che potevo e i provvedimenti di restrizione salirono a 1.300.
Che cosa accadde quando poi alla Giustizia arrivò Conso?
Gli scrissi che il 41 bis, essendo un decreto ministeriale, era il prodotto di un’emergenza. Perciò proponevo di sostituirlo con una legge, che avrebbe reso permanente, più efficace e più dura la risposta dello Stato alla mafia. La situazione era estremamente pericolosa. Avevamo appena scoperto il piano per l’uccisione di alcuni agenti del carcere di Pianosa, sventandolo per un soffio.
Arrivava dal carcere l’ordine di uccidere?
Sì: questo era il problema cui occorreva dare una risposta più decisa. La sicurezza sarebbe stata tanto più garantita quanto più forte fosse stato il controllo sulle comunicazioni tra il carcere e fuori, che passavano attraverso la corrispondenza e i colloqui. Chiedevo un rafforzamento della censura sulle lettere e la possibilità di ascoltare e registrare i colloqui. E inoltre che i mafiosi chiamati a deporre nei processi potessero farlo solo attraverso un collegamento audiovisivo, senza essere portati in udienza.
Reazioni?
Da Palermo Cosa nostra inviò una lettera anonima al presidente Scalfaro. Arrivò anche al Vaticano e ad altri, tra cui il ministro dell’interno (Nicola Mancino, ndr). La lettera invitava a «togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato», cioè a cacciarmi. Fatto gravissimo: di quella lettera non venni mai messo al corrente.
La data?
Febbraio 1993. Tre mesi dopo, visto che ero ancora al mio posto, esplose l’autobomba in via Fauro a Roma (14 maggio) e ci fu la strage di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio). Il 4 giugno venni rimosso dal mio incarico e sostituito con Adalberto Capriotti. Ma i lettori di Panorama sanno già come andò, visto che avete dato conto della testimonianza dell’ex segretario generale della presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, e poi avete intervistato il vicecapo dei cappellani penitenziari, Fabio Fabbri, che ebbe un ruolo importante in quella storia: fu Scalfaro, il primo destinatario dell’anonimo, a volere la mia testa.
La sua rimozione facilitò la trattativa?
La scelta del mio successore fu praticamente affidata ai cappellani, gli stessi che avevano trattato per il Vaticano e lo Stato nel sequestro Moro. È un fatto, ma ce ne sono altri: documenti che ho potuto vedere solo di recente e che dicono in modo eloquente cosa accadde subito dopo la mia rimozione.
Quali documenti? E che cosa accadde?
Agli atti dell’inchiesta condotta all’inizio del 2000 da Gabriele Chelazzi, pm di Firenze, ci sono una serie di lettere e appunti dei miei successori, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, i quali proponevano al ministro Conso una serie di revoche del 41 bis. Nel giro di pochi mesi i detenuti di mafia a regime duro crollarono da 1.300 a 436.
Basta per dire che ci fu una vera trattativa? E che la revoca del 41 bis arrivò in cambio della pax mafiosa?
Tra i documenti ne ho trovato uno a dir poco agghiacciante. È un appunto in cui il Dap chiede una serie di revoche del 41 bis. Ma attenzione alla data: è del 29 luglio 1993. Nei due giorni precedenti c’erano stati gli attentati di piazza San Giovanni e alla Chiesa di S. Giorgio al Velabro, a Roma, e la strage di via Palestro a Milano. E attenzione: 5 morti, 12 feriti e danni ingenti al patrimonio artistico vengono definiti una «delicata situazione generale, che impone di non inasprire inutilmente il clima all’interno degli istituti di pena». Quindi, di revocare un ulteriore gruppo di decreti 41 bis.
Però l’inchiesta di Chelazzi non approdò a nulla.
Chelazzi morì all’improvviso (il 16 aprile 2003, ndr) mentre stava indagando; il suo lavoro si bloccò. È inquietante che nessuno abbia sentito il bisogno di riprendere il filo della sua indagine. Quei documenti sono
sepolti in un archivio da quasi un decennio.
Ma lei se la sente di affermare che una trattativa ci fu?
Io non so e non posso sapere se c’è mai stato un tavolo formale intorno al quale si sono seduti mafia e Stato. Ma non c’era bisogno di alcun tavolo per discutere di certe cose. La trattativa era implicita e il patto finale era tacito, visto che l’una sapeva che cosa voleva l’altro, e viceversa.
Dunque, una trattativa implicita?
Sì, una trattativa implicita. E il prezzo pagato alla mafia furono la mia testa e la fine del carcere duro.
Lei crede che Borsellino sia stato ucciso perché si opponeva alla trattativa?
No. Gli attentati contro Falcone e Borsellino sono una storia completamente diversa. Ancora tutta da scrivere.
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http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/palermo/notizie/cronaca/2011/10-maggio-2011/ciancimino-jr-aula-processo-morisuggeri-avvocato-mio-padre--190607820272.shtml

Processo Mori, la deposizione di Ciancimino

Ciancimino jr in aula nel processo Mori:
il «puparo» è l'autista di un generale

Il figlio dell'ex sindaco provato dai 20 giorni di carcere
«La trattativa fu orchestrata da Amato e Mancino»

PALERMO - Camicia a righe bianche e blu, pantalone blu e inseparabile bottiglietta d’acqua con faldone di documenti. Così Massimo Ciancimino, testimone assistito, che ha accettato la presenza di fotografi in aula, si è presentato davanti alla quarta sezione del tribunale di Palermo al processo al generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia. Dopo venti giorni di carcere, il figlio dell’ex sindaco è apparso pallido e teso, meno spavaldo delle altre occasioni in cui è stato sentito come superteste. È la seconda volta che depone al processo Mori. La prima volta, un anno fa, era stato nell’aula bunker dell’Ucciardone. Le prime domande del pm Nino Di Matteo si sono concentrate sulla genesi della nomina dell’avvocato Nicolò Amato come legale del padre Vito Ciancimino, che sarebbe stato frutto di un suggerimento dei carabinieri che in quel periodo incontravano l’ex sindaco di Palermo. La circostanza è stata confermata in aula dal teste. «Avevamo degli ottimi avvocati, tra i più conosciuti a Palermo - ha detto - Mio padre però mi disse, dopo il suo arresto, che doveva cambiare legale. Doveva nominare Amato, gli era stato suggerito da Mori e dal capitano Giuseppe De Donno. Fui io stesso ad andare da Amato e dirgli che sarebbe stato il prossimo avvocato di mio padre. Lui non fu per nulla sorpreso, mi disse che era già stato allertato ma non da chi».
IL «PUPARO» - «Sono stato avvicinato da questo personaggio, in modo molto amichevole, che mi ha detto di avere ricevuto copia del manoscritto di mio padre "Le mafie" accompagnato da una documentazione per dimostrare la persecuzione giudiziaria che attuavano Giovanni Falcone e Gianni De Gennaro. Mi disse che la vittime della trattativa erano state mio padre e il generale Mori e che la trattativa era stata orchestrata da altri personaggi come Amato e Mancino». Così Massimo Ciancimino, al processo al generale Mario Mori, parla del presunto «puparo», il personaggio che gli avrebbe consegnato documenti dicendo di darli ai pm. «Si è presentato - ha proseguito - come autista del generale dei carabinieri Paolantoni, una persona che conoscevo bene, veniva spesso a casa mia. Eravamo alla presentazione del mio libro "Don Vito" allo Steri, l’anno scorso. Mi disse che aveva del materiale, e in quel caso mi consegnò quattro fogli, che mi potevano aiutare se avessi voluto scrivere il seguito del libro. Mi ha detto anche che mio padre gli aveva fornito tutta questa documentazione, che lui chiamava "il pepe", per rendere più appetibile l’eventuale pubblicazione del libro "Le Mafie"». «Dopo che lo vidi a Palermo lo incontrai altre tre volte a Bologna - ha detto - Mi diede sempre documenti importanti, erano tutti manoscritti di mio padre. Ogni volta mi diceva di darli all’autorità ai magistrati e così io facevo. Poi lui si informava se io li avessi davvero consegnati ai pm. Questo personaggio non voleva entrare nella vicenda».
DE GENNARO - La fotocopia falsificata che ha portato Massimo Ciancimino in carcere per calunnia aggravata nei confronti dell’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, entra nel processo a Mario Mori e Mauro Obinu. «Non ho scritto io il nome di De Gennaro accanto agli altri della lista - si è giustificato Ciancimino -. Mio padre cerchiò la parola Gross. Non ricordo che lui lo scrisse. Quando "mister x" mi ha consegnato la fotocopia con De Gennaro io mi sono stupito perchè questa aggiunta io non l’avevo mai vista». «Il documento senza la dicitura accanto lo conoscevo - ha proseguito Ciancimino -. È l’elenco di nomi che è stato scritto da me sotto dettatura, tranne l’aggiunzione di De Gennaro. Era la lista dei rapporti "trasversali" con le istituzioni che aveva intrattenuto come mediatore di Cosa nostra fin dagli anni Settanta. Mio padre me li dettò nel 2000. C’erano nomi che non mi aspettavo. Per esempio Contrada. Mio padre lo considerava addirittura un suo nemico perchè ebbe un ruolo nel suo arresto».
LA FALSA CONFESSIONE - Il 22 aprile scorso, il giorno dopo al suo arresto per calunnia, parlando con i pm di Palermo Ciancimino jr ammise però di aver falsificato il documento dichiarando: «Fatemi uscire, fatemi vedere mio figlio. Il documento l’ho falsificato io per avallare la tesi di mio padre che mi aveva indicato De Gennaro come persona collegata al signor Franco». In quello stesso giorno però Ciancimino ha cambiato più volte versione, concludendo infine di non conoscere l’origine del documento. «L’ho detto perchè volevo uscire dal carcere», ha puntualizzato oggi Ciancimino rispondendo alle domande del legale di Mori, Basilio Milio, che gli ha letto brani degli interrogatori in carcere. Milio ha ricordato anche altri punti del verbale del 22 aprile, registrato nel carcere di Parma, in cui i pm chiedono esplicitamente al testimone se avesse ricevuto il documento falso o altri fogli da qualcuno. A queste domande Ciancimino ha risposto sempre negativamente fino al 7 maggio scorso quando ha delineato la figura del «puparo» fornendo anche il nome ai magistrati. Il personaggio che lo ha avvicinato ad aprile 2010 gli avrebbe infatti lasciato anche un biglietto da visita.
«ULTIMO» CONTRO IL COLONNELLO GIRAUDO - La giornata in aula per il processo al generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia era iniziata con il confronto tra Sergio De Caprio, il capitano Ultimo, e il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo. Questi aveva detto che Mori non avrebbe concesso a De Caprio gli uomini necessari per stanare Bernardo Provenzano. Da qui sarebbe nata la rottura dei rapporti fra i due. La circostanza è stata poi smentita da De Caprio. «Nel 1995-1996 cambiò molto il tuo atteggiamento nei confronti del generale Mori - ha detto Giraudo rivolgendosi a De Caprio - Ti ricordo che avesti parole di astio nei confronti di Mori. Quando ci fu la voce che sarebbe venuto il colonnello Ganzer al Ros, che era stato voluto da Mori. In quell’occasione si scatenò la tua rabbia perchè Mori non ti diede il personale necessario per catturare Provenzano. Ti ricordo anche che dopo l’arresto di Riina dicesti che ci avrebbero dato anche un satellite». «In quel periodo ero alla scuola di guerra a Civitavecchia - ha spiegato De Caprio - Per quanto riguarda i mezzi che ci avrebbero dato, lo dissi dopo che assassinarono Falcone e non dopo la cattura di Riina. Quello che dici è falso. Tu mi hai visto sempre sporco. Non hai mai avuto rapporto con me se non raramente e sempre per chiedere promozioni. Volevi che intercedessi. Mori mi ha sempre dato gli uomini, non c’è dubbio su questo».
Nicola Mancino




LA REPLICA DI MANCINO - «Chi afferma che sarei stato io il referente della trattativa, (adesso viene chiamato in causa anche Amato), è il figlio del mafioso Vito Ciancimino, l’autore del "sacco" di Palermo. Un testimone de relato». È la replica di Nicola Mancino chiamato in causa dal figlio dell'ex sindaco di Palermo. Direttamente Massimo Ciancimino «non sa nulla - prosegue Mancino - ma riferisce maliziosamente per sentito dire, confezionandosi una scialuppa di salvataggio per evitare a se stesso ulteriori guai giudiziari». «Il teste de relato, come nel caso di Vito Ciancimino - chiede Mancino - può essere considerato affidabile, tenendo conto che la sua fonte una volta è un fantomatico "signor Franco", poi un indefinito "mister x", domani chissà chi?».
11 maggio 2011